Con il trattato di Rapallo del 1920 e quello di Roma del 1924, l’Italia, forte della vittoria nella prima guerra mondiale, fece suoi i territori della Slovenia e della Croazia, annettendo perciò, i 327 mila sloveni e i 152 mila croati ivi residenti.
Questo processo, imposto dal fascismo, portò alla soppressione totale delle istituzioni slovene e croate, al divieto dell’uso del serbo-croato e all’imposizione dell’italiano come unica lingua nelle scuole, (dalle quali furono licenziati gli insegnanti di madrelingua slava) e negli uffici pubblici dove vi fu una fortissima limitazione nell’assunzione di impiegati sloveni, sostituiti con immigrati italiani.
Vennero eliminate le banche slovene e croate. e si arrivò perfino all’italianizzazione forzata dei cognomi in base ad una politica razzistica di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone. Anche la gerarchia ecclesiale vaticana fece la sua parte nel programma, rimuovendo dall’incarico i vescovi slavi di Gorizia e Trieste e abolendo l’uso della lingua locale nelle funzioni liturgiche.
A chiudere il quadro, le camicie nere, con le loro scorribande, seminavano sistematicamente il terrore nelle città e nei villaggi, per scoraggiare qualsiasi ribellione. Nonostante ciò le ribellioni della popolazione slava ci furono, e centinaia furono i processi e le condanne a morte comminate dai tribunali speciali fascisti.
La situazione, che negli anni era diventata sempre più critica, si aggravò ulteriormente a partire dal 1941, quando, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, tutta la Jugoslavia fu attaccata dal regime fascista e nazista. La lotta tra i partigiani jugoslavi e i nazifascisti, si concretizzo, da parte di questi ultimi in vere e proprie azioni terroristiche verso i civili (ad esempio l’eccidio nazista di 7000 abitanti di Kragujevac) o, nel marzo del 1942, con l’attuazione della circolare 3C inviata a tutti i reparti dal Comando superiore armate Slovenia e Dalmazia (poi detto Supersloda).
La circolare conteneva ordini di una ferocia inaudita come, ad esempio: “Internare, a titolo protettivo, precauzionale e repressivo, individui, famiglie, categorie di individui delle città e delle campagne e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali; si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostreranno timidezza e ignavia”.
A fronte di tale direttiva, vennero approntati, sia nel territorio italiano che in quello jugoslavo occupato, un gran numero di campi di concentramento, (tra questi il famigerato Lager di Arbe) nei quali oltre ai detenuti di etnia slava vennero spesso rinchiusi anche migliaia di antifascisti italiani e stranieri di varie nazionalità. Gran parte degli slavi, fra cui anche vecchi, donne e bambini, trovarono la morte per inedia, malattie, torture o soppressione fisica (circa 1500 nel solo Lager di Arbe), a fronte di precise istruzioni emanate direttamente da Mussolini, che aveva ordinato «l’annientamento di uomini e cose».
Questa è, d’altronde, solo una piccola parte dei crimini sistematicamente commessi dall’Italia fascista nella costruzione del suo impero, in nome della “superiore civiltà italica” e della sua “missione civilizzatrice“, in Africa (Libia, Etiopia, Somalia) e nei Balcani (Albania, Jugoslavia e Grecia).
Massacri di civili, distruzione di interi villaggi, eliminazione delle élite intellettuali e politiche, uso di armi chimiche, distruzione delle colture e del bestiame per ridurre alla fame la popolazione, deportazioni e campi di concentramento, in alcuni dei quali il tasso di mortalità arrivò sino al 50% degli internati. Una serie di orrori, con un bilancio di morti, arrotondato per difetto, di 300.000 etiopi, 100.000 libici, 100.000 greci e 250.000 jugoslavi.
I responsabili di quei crimini non furono mai processati né incriminati. Viene da pensare che ciò fu fatto scientemente per evitare di far nascere, in Italia, una presa di coscienza in grado di indebolire il fronte anticomunista, ritenuto essenziale nella logica della Guerra Fredda.
Per onestà di cronaca bisogna dire che nemmeno i crimini, perpetrati successivamente dalla polizia jugoslava, furono mai puniti; con l’annessione della città di Trieste alla nuova Jugoslavia il 3 maggio 1945, il comando jugoslavo procedette alla repressione sistematica di tutti coloro che erano considerati oppositori del nuovo regime. Le autorità jugoslave attuarono brutalmente arresti, uccisioni sommarie e deportazioni.
Un numero non ancora determinato e molto controverso, di fascisti, nazisti, slavi collaborazionisti, ustascia, cetnici e, probabilmente, anche membri italiani della Resistenza, contrari all’annessione, colpevoli, secondo il loro grado di giudizio, di gravi crimini di guerra contro la popolazione, furono perciò sommariamente processati, passati per le armi e quindi gettati nelle “foibe”[1]. Anche qui, malgrado le proteste, nessuno intervenne.
Sul numero delle vittime gettate nelle “foibe”, sulla sicura presenza di italiani in esse e, in particolare, sui numeri c’è però, ancora molta incertezza. Ad esempio, la foiba di Basovizza, proclamata nel 1992, monumento nazionale, è diventata nei primi anni sessanta il simbolo di tutte le foibe, un luogo di pellegrinaggio, in forza della convinzione che in essa sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone.
In realtà su quest’affermazione non c’è alcun riscontro; ripetute ispezioni alla stessa, effettuate dagli alleati, sollecitati dalle forze politiche italiane, dopo la ritirata jugoslava, portarono alla scoperta di 150 militari tedeschi, un civile e alcune carogne di cavalli, gettati evidentemente dopo gli scontri a fuoco, per sbarazzarsi dei cadaveri. Anche altre ispezioni compiute da esercito e speleologi italiani negli anni successivi hanno avuto lo stesso risultato.
Nel 1959 il pozzo fu sigillato, per motivi di sicurezza, ma forse anche per evitare ulteriori indagini.
Questo episodio, naturalmente non fornisce alcuna certezza su altri possibili tragici eccidi perpetrati dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, (si parla di una cifra tra le 5000 e le 11000 persone); dimostra solo come la verità storica e quella percepita, non siano sempre concordanti. L’assoluta mancanza di documenti su queste atrocità, “rimosse per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”, come ebbe a dire il Presidente Napolitano in occasione del “giorno del ricordo” nel 2007, contribuisce ad infittire il mistero.
Conclusioni
Ho volutamente indicato, sia pure sommariamente, gli episodi di matrice italiana e quelli di matrice jugoslava, per permettere a chi legge di individuare e valutare secondo la propria coscienza, l’ineludibile concatenazione storica degli eventi.
Ho voluto anche sottolineare che parlando dell’”affare foibe” non si può decontestualizzare questa vicenda da quella più generale dell’aggressione nazi-fascista alla Jugoslavia e dalle successive politiche di “pulizia etnica” intraprese dal governo di Mussolini, oltre alle altre nefandezze di cui si è detto.
In definitiva, penso che, in merito all’affare foibe, se si riconosce all’Italia solo lo statuto assoluto di “vittima” e non quello, antecedente, di “aggressore“, si tendono a ristabilire una presunta integrità e una dignità storica, oggettivamente difficili da dimostrare.
[1] Il termine “foiba” è una corruzione dialettale del latino “fovea”, che significa “fossa”; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua.